Massimo Arcangeli

Linguista e critico letterario

Massimo Arcangeli

Linguista e critico letterario, ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Cagliari e garante per l’Italianistica nella Repubblica Slovacca. È consulente scientifico per la Società Dante Alighieri e direttore di festival culturali. Collabora con l’Istituto Enciclopedia Italiana Treccani e con numerose testate giornalistiche e radiotelevisive.

Leggere incide sul modo in cui parliamo e ci esprimiamo?
Certo che incide, lo dicono tanti neuro-scienziati e neuro-linguisti. Nel momento in cui, scrivo qualcosa su carta oppure lo digito sulla tastiera del mio cellulare o del mio computer, metto in atto azioni diverse che hanno un riflesso cognitivo altrettanto importante, perché l'idea stessa che io scrivo in corsivo, accompagnando il processo di scrittura con l'operazione manuale che esprime il senso di una continuità che è quella analogica, attiva componenti diverse delle sfere cognitive cerebrali che sono coinvolte. L'operazione manuale, quella rappresentata dall'atto di scrittura continua o dall'atto di digitazione, presuppongono investimenti cognitivi diversi. Se assumiamo questo allora capiamo che, a livello ancora più generale, anche l'operazione di lettura implica trasformazioni profonde quando ovviamente noi pensiamo di leggere la stessa cosa su due mezzi diversi. Ormai studi scientifici lo hanno assodato: se io leggo un libro in versione digitale, lo leggo in modo diverso dalla lettura tradizionale. Se lo faccio io che sono un immigrato digitale probabilmente gli effetti che la doppia lettura ha su di me sono di un certo tipo, se invece è un nativo digitale a compiere l'operazione contraria, cioè ad abituarsi a una lettura cartacea che per noi è scontata, tornerà in gioco il fattore di cui dicevo prima. Noi migranti digitali siamo più propensi a operare nel nostro campo quando ci cimentiamo in una lettura tradizionale; al contrario dobbiamo fare lo sforzo di capire cosa succede se ci immergiamo totalmente in una lettura diversa. La stessa cosa deve avvenire per i nostri allievi se li vogliamo guidare bene verso un processo che è comunque un processo integrativo, perché la lettura digitale non esclude quella cartacea: sono due facce di una stessa misura ma bisogna saper accompagnare i due processi in modo cosciente, responsabile.

Interessante la metafora dei “migranti digitali”, ma non rischiamo di trasformarci in “profughi digitali” e di approdare in terre dove sarà difficile adattarci?

È vero ma fino a un certo punto. Il termine di emigrato o immigrato dovrebbe essere in qualche modo depotenziato, dobbiamo tutti metterci nella condizione di essere migranti, l'immigrante non sta da nessuna parte, migra e se migra procede col cambiamento. A seconda del cambiamento va avanti, accompagna il cambiamento e non si fa trovare impreparato perché è in movimento. Questa è l'aggiunta della metafora a cui lei ha fatto riferimento insieme al sentirsi ai margini ma non come fattore di esclusione ma come condizione di privilegio, dello stare fra due mondi che apparentemente non si conciliano. Stare in mezzo o ai margini oggi non vuol dire essere marginalizzati o autoemarginarsi ma avere la capacità, la prontezza, il coraggio e la sensazione di stare nel punto giusto. Un altro aspetto da sottolineare, parafrasando il concetto di ascensore sociale, è che la scrittura e la lettura (ovvero la capacità di interpretare o capire un testo e di usare delle facoltà cognitive) hanno facilitato una sorta di promozione sociale o culturale della persona.

Crede che la lettura sia ancora uno strumento per ridurre le differenze culturali o sociali o non basta più?
Temo che non basti più, però è uno strumento di ausilio prezioso, ma lo sappiamo perché leggere, e leggere bene, vuol dire in qualche modo riuscire ad avere un maggior potere sul mondo, non nel senso che dobbiamo dominarlo il mondo, ma nel senso che dobbiamo interpretarlo bene, una parola che muore certo potrebbe non infastidire nessuno e non suscitare l'interesse di nessuno, ma in realtà anche il nostro stesso patrimonio lessicale che magari può essere anche durato per secoli, se si impoverisce troppo rischia di depotenziare, di rendere più fragili noi stessi e soprattutto le nuove generazioni, perché possedere parole vuol dire anche avere il potere importante di interpretare e in questo caso anche di restituire ciò che il mondo ci pone davanti, quindi la lettura è uno strumento formidabile di trasmissione del sapere. Bisogna però capire anche un'altra cosa, continuando sulle metafore: a me non piace tanto l'idea dell'ascensore sociale, non mi piace proprio l'idea dell'ascensore e l'affianco sempre all'immagine di un tapirulan. Se noi affianchiamo le due immagini troviamo due modi diversi di leggere, interpretare, comprendere e restituire. Continuando a usare la metafora dell’immigrato digitale, facendo l’esempio della semplice stesura di una scaletta, io so di poter dare una pista alla maggior parte dei miei studenti, perché io nasco e sono vissuto all'insegna di una cultura che è stata sempre profondamente radicata nella verticalità, quella proprio degli ascensori. Quindi ovviamente se io stendo una scaletta mediamente, la stendo molto meglio della maggior parte dei miei studenti o di quasi tutti i miei studenti, però se io mi metto a ragionare su una mappa cognitiva e quindi cerco di ragionarci con gli strumenti digitali o anche quelli manuali di cui disponiamo, i miei studenti mi darebbero lezioni quasi ogni giorno, perché loro sul piano della orizzontalità, quella del tapirulan, hanno una dimensione esatta e diversa. La metafora dell'ascensore ecosociale non è più tale se non lo intersechiamo con immagini che sono planimetriche, sono orizzontali. Va ridimensionata l’idea che uno debba salire per una direzione verticale perché ci si apre la prospettiva di una dimensione diversa in termini di promozione personale, culturale e sociale. 

La campagna che lanciamo si fonda su un concetto di brain wellness e di gaming, sull’idea di allenare del nostro cervello così come alleniamo il nostro corpo. Secondo lei questa idea di brain fitness, dell'allenare le parole potrebbe fare presa?
È un'idea formidabile che funziona perfettamente perché ciascuno può sperimentarla su se stesso e può capire dove possa arrivare. Siamo anche qui nell’idea dello stare nel mezzo. Facciamo l’esempio del movimento e dell’alternativa che c’è tra l'idea di fare una passeggiata e quella di correre. Nel mezzo c’è la camminata veloce. Se la passeggiata è sintomo di un certo disimpegno, la corsa è il suo opposto, la camminata veloce è sintomo di movimento in osservazione del mondo circostante, di riflessione e focalizzazione degli obiettivi perché non sono tutto impegnato nella corsa o nella lentezza della semplice camminata. La camminata veloce mi impegna relativamente, mi consente di rimanere concentrato sul movimento, mi consente di mantenere attiva la concentrazione. Nella camminata veloce io ristrutturo il mio tempo, penso a cose a cui non farei attenzione se passeggio o corro, è il momento in cui saldo l'esperienza fisica, l'allenamento fisico con quello mentale. 

L’allenamento del corpo e della mente con l’allenamento della parola dunque può funzionare...
Sì certamente ma appunto con il movimento giusto che può essere ancora una volta quello di mezzo. 

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