Vittorio Gallese
Docente di Psicobiologia e Psicologia fisiologica
Vittorio Gallese
Docente di Psicobiologia e Psicologia fisiologica all'Università degli Studi di Parma, dal 2016 al 2018 è stato Professor in Experimental Aesthetics all'Institute of Philosophy della School of Advanced Study dell'University of London e Adjunct Senior Research Scholar presso il Dept. of Art History and Archeology, Columbia University, New York- Neuroscienziato cognitivo, è uno degli scopritori dei neuroni specchio.
Professore, dal punto di vista neuroscientifico, cosa accade nel cervello quando leggiamo, quali aree vengono coinvolte e come questo cambia dal guardare un film o dall’ascoltare una storia?
Devo iniziare a rispondere contestualizzando la domanda e la risposta. Alla luce di quello che sappiamo oggi, più che puntare su aree specifiche, forse è più conveniente parlare di meccanismi che vengono coinvolti, ingaggiati dalla lettura. Questo perché uno dei rischi delle neuroscienze cognitive contemporanee è una sorta di deriva neo-frenologica, cioè quello di attribuire a neuroni o aree cerebrali funzioni specifiche. Credo che questo si possa ascrivere a una delle trappole che ci tende il linguaggio umano, ossia la tentazione di assegnare uno statuto ontologico alle parole. Le parole sono dei segnaposti che ci semplificano la vita, come ha scritto peraltro Primo Levi nei “Sommersi e i salvati” e, per semplificare, gli esseri umani si sono dotati di quegli strumenti meravigliosi che chiamiamo linguaggi e concetti. Detto questo, io preferisco parlare di meccanismi coinvolti dalla lettura. Innanzitutto molto dipende da che cosa leggiamo. Se parliamo di narrativa, quindi dei mondi paralleli della finzione narrativa, quello che emerge è che praticamente quando noi leggiamo una storia non utilizziamo un cervello dedicato alla lettura, semplicemente riusiamo parte delle risorse e dei meccanismi che normalmente impieghiamo per navigare nella quotidianità della vita e lo mettiamo al servizio della lettura. Questo significa che uno dei meccanismi che ci coinvolge, che ci porta a identificarci temporaneamente con i personaggi, a prendere le loro parti, in parole povere, la caratteristica empatia che spesso la narrativa è in grado di suscitare dipende fondamentalmente da meccanismi che conosciamo già da anni e che io definisco globalmente come “simulazione incarnata”. Quindi quando io leggo delle azioni, delle emozioni o delle sensazioni vissute da un personaggio e narrate a proposito di un dato personaggio noi attiviamo parte dei meccanismi cerebrali e corporei che normalmente si attivano quando azioni, emozioni, sensazioni analoghe le compiamo o le speriamo noi. È una vecchia tradizione in estetica quella dell'empatia che ha un periodo di grande vitalità tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, poi si inabissa, viene oscurata dalle grandi teorie come la psicanalisi, lo strutturalismo, la semiotica che ha conosciuto invece una nuova rivitalizzazione soprattutto a partire dalla nostra scoperta dei neuroni specchi o dei meccanismi di rispecchiamento.
Quindi guardare un film, ascoltare un audio o leggere un libro è uguale?
Da un punto di vista dell'esperienza personale è diverso perché ingaggia sensi diversi, ma i contenuti che la narrazione attiva, indipendentemente dal fatto che sia veicolata dalla visione di immagini, dall'ascolto di parole o dalla loro lettura, fondamentalmente sono gli stessi. Ci sono degli esperimenti che dimostrano che le stesse aree motorie si attivano sia quando eseguiamo un'azione, sia quando la vediamo eseguire da qualcun altro, sia quando ne leggiamo una descrizione verbale. Poi è chiaro che a questo dobbiamo aggiungere un ingrediente fondamentale, due direi. Primo che questo non costituisce l'unico livello di lettura, c'è un livello di lettura che è più legato a una valutazione esplicita dello stile di un particolare autore, cioè gli stessi contenuti si possono dire in modi molto diversi e questo è il motivo per cui leggere Honoré de Balzac è molto diverso da leggere Virginia Woolf o James Joyce o Fëdor Dostoevskij. Ma anche questo aspetto stilistico non è assolutamente slegato dalla nostra natura corporea. Io recentemente ho pubblicato un lavoro dedicato proprio a analizzare il ruolo nell'estetica del linguaggio narrativo e faccio degli esempi tratti proprio da Virginia Woolf, due brani tratti da “Le onde” e da “Gita al faro” e analizzando questi brevi passaggi cerco di mettere in evidenza come è la qualità sinestetica che la Woolf è capace di risvegliare nel lettura, ad esempio quando paragona il rumore prodotto dalla risacca delle onde sul bagnasciuga allo scalpitio degli zoccoli dei cavalli che corrono. Tutte queste cose non è che cadono nel vuoto ma evocano una risonanza che è sempre sensorimotoria e affettiva nel lettore. Poi possiamo portare la nostra analisi a un punto di vista più formale e dobbiamo anche aggiungere che ognuno ci mette del suo e quindi la mia fruizione della stessa narrazione è diversa dalla sua perché le mie esperienze di vita, la mia singolarità fanno sì che di quel testo a me arrivino delle cose che a lei non arrivano e viceversa, non esiste un lettore universale. I mattoni della lettura sono universali e fondamentalmente sono nella nostra natura corporea.
Infatti lei ha già anticipato la domanda che volevo farle sul concetto di “simulazione incarnata” e quindi sul livello di simulazione ed empatia che è differente in base al lettore; possiamo dire che la lettura è un media e il lettore è il destinatario del mezzo ma che reagisce in base alla sua personalità?
Esatto, esatto e poi c'è da aggiungere un altro elemento ossia che in qualche modo la letteratura come dal mio punto di vista tutta l'arte la potremmo definire una forma di realtà, la vera forma di realtà aumentata, molto più degli occhialini pubblicizzati dalle nuove tecnologie perché ci consente di fare dei viaggi mentali che nella vita quotidiana nel bene e nel male ci sono preclusi. Quindi voglio dire che, costruendo questa realtà parallela a noi è estranea, immagini la situazione di Rodion Romanovič Raskol'nikov che pianifica ed esegue un delitto, nessuno di noi normalmente si sognerebbe di commettere un'azione del genere ma attraverso la lettura di quella particolare narrazione architettata da Dostoevskij, in una certa misura, siamo in grado per procura di entrare nella mente di un assassino, nella mente di una persona travagliata che trova un momento di sbocco alla propria crisi esistenziale in questo passaggio all'atto così cruento.
Nel caso della memoria, della capacità di attenzione e comprensione linguistica, la lettura può essere considerata una forma di palestra cognitiva?
Non c'è dubbio. La scrittura e la lettura danno anche la misura delle definizioni che diamo, dei concetti che usiamo e che riteniamo essere dei mondi incomparabili. Si pensi, ad esempio, alla distinzione tra immaginazione e memoria che consideriamo due competenze cognitive distinte, ebbene, alcuni anni fa, una scrittrice che io apprezzo molto, perché è una grande narratrice ma è anche una grande saggista, Siri Hustvedt, scrisse che scrivere una storia, una storia in un racconto o in un romanzo è un po' come ricordare qualcosa che non è mai accaduto. In questa frase metteva in evidenza la stretta connessione che c'è tra memoria e immaginazione nella misura in cui la memoria non è ritrovare un file in un cassetto ma è un momento in cui noi ogni volta ricreiamo l'evento che vogliamo evocare, il legame con il tema dell'immaginazione diventa immediatamente chiaro.
In questa transizione digitale e intelligente, in questa fase di contenuti frammentati, la nostra capacità di lettura profonda rischia? Ci dobbiamo difendere o ci dobbiamo potenziare? Nel senso siamo in una situazione di difesa?
Questo dipende molto dall'atteggiamento che teniamo nei confronti delle rivoluzioni tecnologiche e quindi diciamo che la reazione standard. Provi a immaginare che cosa ha significato l'introduzione della scrittura, che è una tecnologia cognitiva per quell'epoca rivoluzionaria. La nostra specie ha una tradizione orale che dura per la gran parte della storia di noi umani, se consideriamo che l'invenzione della scrittura ha poco più di 5-6 mila anni, rapportati a più di 200 mila è un battito di ciglia. Che cosa succede quando la scrittura e la lettura vengono introdotte e conoscono una prima iniziale diffusione? Un signore che si chiamava Platone, nel Fedro, prende in qualche modo posizione contro questa tecnologia riferendo che avrebbe depauperato le nostre capacità mnemoniche, avrebbe reso l'insegnamento del maestro travisabile perché non testimoniato direttamente dalla sua presenza e dalle sue parole ascoltate direttamente. È una storia che conosciamo già, è una storia è antica quanto ogni innovazione tecnologica; quindi, si innesca sempre una specie di riflesso pavloviano che ci porta ad essere ansiosi, spaventati, dissidenti. Una caratteristica di un umano è quella di non accontentarsi di abitare il mondo, di cambiarlo attivamente. A sua volta i cambiamenti che noi introduciamo nel mondo retroagiscono su di noi, cambiandoci a nostra volta. Quindi quando io leggo che le nuove tecnologie cambiano la funzionalità del nostro cervello, è un'affermazione che mi lascia del tutto indifferente, perché voglio dire, lo sapevamo già, anche imparare ad andare in bicicletta cambia la funzionalità del nostro cervello, proprio perché il nostro cervello è un organo incredibilmente plastico e adattativo e quindi ogni volta che noi introduciamo una tecnologia che cambia le nostre pratiche, queste pratiche a loro volta influenzano la modalità di funzionamento del nostro cervello.
Quindi in teoria non dobbiamo stare lì a difenderci ma seguire il flusso?
No, seguire il flusso non mi piace come strategia, dobbiamo essere critici, da un lato e quindi dobbiamo capire molto di più e continuare a studiare l'impatto che queste tecnologie hanno su di noi, partendo dal presupposto che il cambiamento è inevitabile. Il problema è subire il cambiamento in modo passivo e quindi essere degli utenti passivi delle tecnologie o piegare le tecnologie alle nostre esigenze. Quindi non è solo un problema tecnologico scientifico ma diventa automaticamente anche una questione etico-politica, cioè la macchina condizionerà chi siamo, detterà la matrice a cui l'umano si deve uniformare o l'umano in qualche modo prende in mano le redini e utilizza le nuove tecnologie per crescere e amplificare le proprie potenzialità. Queste due opzioni coesistono sempre a ogni introduzione di una nuova tecnologia; quindi, questo sta a noi e diciamo che, in un mondo che sarà sempre più digitale, la prima esigenza, molto prima del proibizionismo, sarebbe quella di adeguare l'educazione, la pedagogia a un ambiente che non è più quello analogico ma essenzialmente digitale.
Quindi aspettando di sviluppare un atteggiamento adattivo ma critico, un buon libro oltre che piacere è sempre un allenamento?
Non c’è dubbio, non c’è dubbio.
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